Alla domanda : « Che cosa dipinge ? », Picasso rispose : « dipingo la pittura ». Il dialogo proseguì e Picasso affermò che aveva dipinto un solo quadro. Alla fine dell'intervista, in un tono un po' triste, dichiarò: « La pittura ha sempre la meglio». Ho estratto dall'intervista questi punti che mi serviranno per tentare di rispondere un po' all'idea di Freud, il quale pensava che gli artisti aprono delle porte attraverso le quali la psicoanalisi tenta di entrare. Freud d'altronde indica chiaramente che vi è un mistero nell'artista e che la psicoanalisi non può né trovare né dare la chiave che permetterebbe di comprendere, di spiegare come un artista giunge a produrre ciò che produce. Questa posizione di principio ha permesso a Freud di utilizzare delle grandi produzioni artistiche per abbordare e chiarire i misteri che l'inconscio racchiude. Lacan, a maggior ragione, non si è privato di appoggiarsi alle produzioni artistiche dei suoi amici artisti, e di altri ancora, per mettere in luce dei punti della sua teoria. Jacques-Alain Miller, nel suo insegnamento, si è servito in diverse occasioni della produzione letteraria, teatrale e cinematografica. Potremmo studiare le referenze di ognuna di queste produzioni e scoprire certamente, negli psicanalisti citati, dei gusti per certe arti; anche se possiamo già dire che, in questi tre ambiti almeno, la musica brilla per la sua assenza. Ci deve essere una ragione.
Lacan è colui che ha, come è evidente, approfondito di più la figura dell'artista, penso ovviamente a Joyce e al Seminario di Lacan su Joyce[1]. Un seminario molto particolare –e al quale ho avuto l'onore e il piacere di assistere- dove Lacan si interessa a Joyce per cercare un punto, tra altri punti, che io condenserei con la seguente interrogazione: Si può creare un reale? In questo Seminario, Lacan risponde a tale questione dicendo che sta proprio qui il suo lavoro e si serve della formula : creare un reale per la psicoanalisi. Ma vi è un problema. Picasso, come ho detto sopra, non esita a dire che la pittura è, che la pittura resiste, e che l'arista trova il modo di dare forma, per quanto limitata essa sia, alla pittura, attraverso, per esempio, un quadro. Ma il quadro, il quadro realizzato, il quadro esposto, non è altro che il riflesso della pittura, ciò che conduce il pittore di Malaga a dire che ha dipinto un solo quadro che non ha terminato, poiché la pittura resiste al quadro, resiste talmente che egli continua ancora a dipingere.
La formula: ciò che non cessa di dipingersi potrebbe applicarsi perfettamente alla pittura, e non solamente ad essa. Sembra tuttavia che Lacan risponde a Picasso, e in effetti è ciò che fa, quando dichiara che il : «Io non cerco, io trovo» non gli serve più perché ciò che si applica per lui adesso è: "io non trovo, io cerco[2]". Cosa cercava Lacan? Ciò che lui stesso dice: «un reale per la psicoanalisi», un reale per difenderla contro ciò verso cui essa tende: la religione.
Permettetemi una parentesi. Immagino che Lacan ha sognato che un Francisco sarebbe arrivato, che avrebbe restaurato la religione nella gioia e con il consenso di quasi tutti. E forse è perché ha sognato di Francisco, e cioè che il XXI secolo sarebbe stato religioso – come presentiva Malraux – che Lacan ha pensato che doveva costruire un reale per la psicoanalisi, un reale all'altezza dell'epoca. Un reale che tenga conto della religione e della sua faccia oscura : la donna. Un reale capace di dialogare con la religione e con la donna senza essere attirato verso il senso.
Il Seminario XXIII di Lacan raccomanda l'instaurazione di una nuova relazione con il reale. L'interpretazione sarà poetica, un'interpretazione come un fare nel senso primo del termine – un fare artigianale, artistico, come lo indica la sua radice etimologica. E cioè che al sapere e al fare del sinthomo, si aggiungono il sapere e il fare dell'interpretazione, poiché l'interpretazione, che è sospensione del senso, indica la zona d'ombra che essa stessa ha generato. L'interpretazione, come la verità, non può dire tutto, essa conta più per quello che non dice che per quello che dice.
È forse su questo punto che gli artisti aprono delle porte attraverso le quali gli psicoanalisti devono passare. Gli artisti osano fare con dell'inconcluso, dell'incompleto, del mancato, del non chiaro, del peggio : il migliore. Schubert ha scritto: «La sinfonia inconclusa». Bisognerebbe ascoltarla attentamente. Non so se vi sono altri esempi, ma tutti gli artisti dicono che manca qualcosa all'opera che hanno realizzato, a tal punto che un aneddoto racconta che Michelangelo, dopo aver terminato il suo Mosè , gli diede un colpo di martello sul ginocchio gridando: «Parla!».
Attualmente, al museo Guggenheim de Bilbao, il secondo piano è riservato al catalano, Antoni Tàpies. I responsabili dell'esposizione l'hanno intitolata : « Dall'oggetto alla scultura». Al primo piano, sala 104, chiamata Arcelor Mittal, si trova l'installazione permanente di Richard Serra : «la materia del tempo». Questi titoli suggestivi indicano esattamente ciò che noi cerchiamo di dire. Tàpies, il catalano, prende tutto ciò che trova intorno a lui : un bicchiere, un coltello, una sedia, un vecchio chiffon, una pila di piatti, un pezzo di legno, un cestino. Li mette in ordine, poi in disordine, li piega, li rompe, li mescola fino a farne una scultura. Fa ciò che Lacan dice nell'Etica della psicanalisi : «elevare l'oggetto alla dignità della Cosa» e questa elevazione produce il miracolo dell'arte. Così una pila di piatti nelle mani di Tàpies diventa una scultura degna di appartenere al museo delle grandi sculture dell'umanità. In un'altra prospettiva, Serra fa la stessa cosa. Egli vuole dare forma al tempo, un tempo in accordo con l'epoca. Decompone, quindi, la geometria e la topologia, disarticola la spirale, taglia il toro, gioca con la doppia elica e inventa una scultura a partire dallo studio della complessità di una spirale cercando, nello stesso tempo, in un'altra scultura, l'interazione tra la sfera e il toro. È all'interno di queste figure monumentali che Serra mi invita, come spettatore della sua opera, a fondermi con essa, a percorrerla dall'interno, a risentire gli effetti del «fare vibrare nel corpo la sensazione dello spazio lavorato da lui».
Tra il primo piano del Guggenheim e il secondo, cosa c'è? Cosa palpita cosi? È il fare dell'artista, che come ogni «fare» dà forma, anche se inconclusa, a ciò che palpita al cuore di ogni oggetto. Perché? Per dare forma a ciò che, per principio, palpita in silenzio. Basta sapere attendere.
Nella mia ultima seduta di analisi ho evocato la frase di Lacan che era rimasta incisa nella mia memoria : «io so che cosa vuol dire saper aspettare». L'attesa analitica non vuol dire contemplazione, è un saper fare, e, innanzitutto, un saper fare contro la tendenza alla concatenazione significante che sono la religione e la burocrazia. Come diceva il grande artista Charly García, prima che l'Università Nazionale di San Martín gli conferisse il titolo di Dottore honoris causa, quando gli è stato chiesto quale fosse stata la chiave del suo successo, egli rispose: "non c'è un piano B".
Non vi è un piano B se si desidera un reale che sia proprio alla psicoanalisi, per il XXI secolo.
Parigi, gennaio 2014
Tradotto da Mariangela Zugaro